Jung, i chakra e il kundalini yoga

Jung i chakra e il Kundalini Yoga

“Attivare l’inconscio significa risvegliare il divino, la devi, Kundalini, significa dare inizio allo sviluppo del sovra-personale all’interno dell’individuo per accendere la luce degli dèi: Kundalini… è il sovra-personale, il non-Io, la totalità della psiche, e soltanto grazie a lei possiamo raggiungere i cakra più alti in senso metafisico e cosmico” (Jung – La psicologia del Kundalini-Yoga – Bollati Boringhieri, pag. 114, 115).

A seguito delle sei conferenze tenute a Zurigo nel 1932 da Wilhelm Hauer dal titolo “Lo Yoga, ed in particolare il significato dei cakra”, Jung dedicò quattro conferenze alla interpretazione psicologica del Kundalini-Yoga. Il nostro breve saggio vuol essere un piccolo omaggio a tali conferenze junghiane.

 

Quanta importanza Jung abbia riposto nell’immaginazione, lo possiamo rilevare dalla lettura di alcune sue opere. Non è quindi un caso che già dalla prima delle suddette conferenze egli sottolinei un fatto fondamentale relativo a tale “funzione”, che, ricordiamolo, nei tantra (ovvero nel Kundalini-yoga) svolge un ruolo fondamentale. Egli ci ricorda come “gli orientali sono in grado di visualizzare qualsiasi  concetto,  per quanto astratto possa essere” (pag. 56    op. cit.). Per noi occidentali, che stentiamo a concepire come reali ed esistenti le Idee platoniche e la Cosa-in-sé  di Kant, visualizzare un concetto è pressoché impossibile. Ma Jung ci ricorda che nella mente inconscia di un bambino “è presente un ricco mondo di immagini archetipiche”, quindi lo sviluppo della totalità della psiche cui mira un indiano attraverso il Kundalini-yoga non può essere preclusa ad un occidentale: l’inconscio collettivo junghiano ce ne conferma la possibilità.

Ricordiamo che l’idea fondamentale del Kundalini-yoga è  che un’energia statica o potenziale   giace nella zona del perineo, come un serpente addormentato. Essa  è arrotolata (Kundalini vuol dire proprio “arrotolata”), e quando viene risvegliata con tecniche appropriate, salendo di cakra in cakra fa realizzare allo yoghi la fusione con la coscienza di Shiva. In parole molto semplici è un metodo diretto, ma anche pericoloso, per raggiungere l’illuminazione: se non ci si è purificati bene nel corpo, nel “cuore” e  nella mente, possono essere potenziate le parti peggiori di un individuo, e la cosa può costituire pericolo sia per se stessi che per gli altri. L’Energia è neutra, siamo noi a qualificarla, a utilizzarla per far bene o per far male.

Il testo classico cui Jung fa riferimento per i colori, le lettere, gli animali e tutti gli altri simboli presenti in ogni cakra è quello stesso Sat-cakra-nirupana di cui si occupò sir John Woodroffe nel suo The Serpent  Power  (Il Potere del Serpente), scritto sotto lo pseudonimo di Arthur Avalon. Ed ecco cosa ci dice l’autore a proposito dei pericoli di tale risveglio: “l’aspirante deve essere intelligente, deve aver controllo sui propri sensi, astenersi dal recare offesa a qualsiasi essere vivente, mantenersi puro, credere nei Veda, aver fede nel Brahman che è l’unico rifugio ed essere un non-dualista”.

Jung, come suo solito, entra subito in argomento affrontando il primo cakra, il Muladhara. Poiché la traduzione letterale del nome di esso è “sostegno della radice”, egli ci dice che siamo tutti posizionati in questo “sostegno di base”, nelle nostre radici, ovvero nel mondo fisico. Qui il Sé dorme e l’Io è conscio. Noi ci troviamo tutti in questo mondo conscio. Jung, però, ci avverte subito di una cosa: “Il Muladhara è un intero mondo; ogni cakra è un  intero mondo”. E questa a nostro parere è una grande intuizione. E’ come se ci stesse dicendo: all’interno di ogni cakra vi sono tutti gli altri, ovvero come se precisasse che in ogni stato di coscienza sono presenti tutti gli altri. Egli non sviluppa tale sua affermazione, ma fa capire come la psiche potrebbe essere strutturata in modo tale che ad ogni stato di coscienza presenti le stesse identiche geometrie, analogie di tutti gli altri stati di coscienza. Quindi conosciuto un cakra, per analogia  possono essere conosciuti tutti gli altri. Ma tutto questo rimane un discorso teorico. Nella pratica, o si è coscienti di una cosa, o non lo si è.

Subito dopo ci mette in guardia: per noi occidentali “questi simboli hanno una terribile tendenza a catturare l’inconscio e a non staccarsi da noi” e possono inibire lo sviluppo della psicologia che ci è familiare. Per dominare questi simboli, ci viene detto, si devono fare sforzi eroici, e la loro influenza può essere pericolosa.

Questi avvertimenti sono stati dati negli anni trenta, ma da allora, scambi culturali sempre più massicci hanno fatto diventare di patrimonio comune ogni cultura. Pertanto, quel che dice Jung, oggi non mette paura come settant’anni fa.  Ma torniamo ai cakra. Dicevamo del Muladhara, il “luogo” in cui noi tutti ci muoviamo.  In questo mondo, dice Jung, siamo come pesci nel mare, preda di impulsi, istinti e incoscienza. Ci muoviamo in esso, accontentandoci di queste tre dimensioni, e la nostra razionalità può fare ben poco per farci andare oltre, per farci lasciare queste confortevoli e sicure terre muladhariche. Sono davvero pochi quelli che, guardando oltre l’orizzonte, intuiscono terre lontane, che per essere raggiunte costringono a faticose traversate marine. Sono pochi quelli che riescono a scuotere dal sonno la bella addormentata.

Jung individua nel secondo cakra, Svadhisthana, l’ Inconscio, questo immenso mare che ospita “il grande leviatano che minaccia di annichilirci”. Ora, poiché il secondo cakra rispetto al primo è più in alto, viene  sottolineato che “gli indiani hanno l’inconscio sopra, noi l’abbiamo sotto” (Id. pag. 63). Ma nulla cambia: in tutti i culti misterici, in primo luogo veniva proposta la prova dell’acqua, l’immersione in essa. La conoscenza delle acque (dell’inconscio), dei pericoli che si annidano in esse, dei venti che le muovono, delle correnti, delle profondità, delle deformazioni che si producono in esse, ecc., è presupposto essenziale e necessario per potere “navigare”, “immergersi”, “galleggiare” senza rischi e pericoli. Oggi, informa Jung, questo andare in mare è rappresentato dall’analisi, “la quale è ugualmente pericolosa”: ci si può rigenerare o distruggere. Così come per risvegliare Kundalini ci si deve prima purificare, “ci si può avvicinare all’inconscio in un solo modo, e precisamente con una mente purificata, con un retto atteggiamento e con la grazia del cielo, che è la Kundalini. Deve guidarci qualcosa dentro di noi, un impulso. Se questo non c’è , allora si tratta soltanto di qualcosa di artificiale” (Id. pag. 69, sottolineatura nostra). Ma qui il risveglio del serpente può palesarsi come una paura, una nevrosi o più semplicemente un vivace interesse. Ed è qui che Jung suggerisce come Kundalini, in termini psicologici, “è ciò che ci induce a intraprendere le più straordinarie avventure”. Questo paragone potrebbe essere un po’ riduttivo, a meno che noi non includiamo nel “vivace interesse” di cui sopra l’intuizione del Divino, il risveglio ad altre realtà sottili, il misticismo in genere, ecc. E noi crediamo che Jung includesse tutto questo, perché poco prima asseriva che Kundalini è “impulso divino” (id. pag. 68). Ed allora la metafora del fiume (acqua) che cerca la sua fonte, l’oceano (acqua) calza a pennello.

Ma qui casca l’asino, perché quando un fiume raggiunge l’oceano, quando l’individualità scompare e rimane solo l’Uno, come fa l’Oceano a parlare di Sé? Non ci sono più parole, ci si è sciolti nella Coscienza Cosmica, e questo annientamento non può essere trasmesso da un ego che (almeno in quella occasione) è scomparso. Molti santi, dopo le loro estasi non trovavano parole per esprimere la loro esperienza. Si servivano di metafore, di poesie, di paradossi ecc. E’ il caso, per esempio, di San Giovanni della Croce, che in ‘Strofe composte dopo un’estasi di profonda contemplazione’ scrive: “Me ne entrai dove non seppi, / vi rimasi non sapendo, / ogni scienza trascendendo. / 

Non capivo dove entravo, / però quando lì mi vidi, / non sapendo dove stavo, / cose eccelse molto intesi; / non dirò quel che sentii, / ché rimasi non sapendo, / ogni scienza trascendendo (S. Giovanni della Croce – Opere – Postulazione generale dei carmelitani scalzi, pag. 1041). Nelle sette strofe che seguono la prima il tenore è lo stesso: San Giovanni intendeva tutto, ma rimaneva balbettando, rimaneva non sapendo. Tutto accade su un piano che sta aldilà della ragione, della scienza: a parlare non può più essere l’ego, il fantoccio, la maschera, l’illusionista, l’ingannatore, la grande bugia. La Conoscenza, la Verità La si può solo Essere. Questo almeno è quello che ci dicono gli illuminati, i buddha.

E’ bene, a questo punto, tornare con i piedi per terra, o per lo meno in acqua: siamo solo al secondo cakra e non al loto dai mille petali sopra la testa, laddove potrebbe accadere tutto questo. Riprendiamo dunque l’avventura straordinaria.

Per Jung questo secondo centro è femminile, “perché l’acqua è l’utero della rinascita, il fonte battesimale”. Ma in che cosa consiste questa rinascita? Nell’ “accensione della luce degli dei” (la frase sta in epigrafe). Gli dei sono forze impersonali, non egoiche, mentre l’uomo è un  essere egoico. Quindi, la rinascita consiste nel passaggio da un mondo egoico ad un mondo impersonale: dall’ io al Sé, dal burattino Pinocchio al bambino Pinocchio. L’io si è fuso con l’inconscio e ne è scaturito il Sé. Tutto questo riporta, ci ricorda Jung, alla filosofia cristiana, secondo cui l’esistenza personale è transitoria e siamo su questa terra per imparare, migliorare e divenire angeli. Quindi attivando Kundalini, aggiunge, spalanchiamo le porte ad un mondo di eternità. Tutto questo ci permetterà di conoscere meglio il mondo di Muladhara, il Malkuth cabalistico, il piano fisico della manifestazione, perché abbiamo un punto di vista esterno, “che ci è dato dal simbolismo delle esperienze religiose” (Id. pag. 74). Ma attivare gli eventi impersonali comporta un certo rischio: se ci si identifica con essi “si avvertiranno presto delle conseguenze spiacevoli,  si avrà un’inflazione, andrà tutto male” (Idem). Non ci si deve identificare con l’inconscio, ma si deve rimanere distaccati. L’inflazione è una forma lieve di follia, ci viene detto, e se essa è molto forte, allora è schizofrenia. Quando conosciamo l’inconscio, ci avverte Jung, si scatena l’intero mondo emotivo. Sesso, potere e ogni diavolo della nostra natura vengono liberati dalle catene. E’ una tempesta di fuoco, ed ecco che così siamo passati al plesso solare, al cakra Manipura.

Dall’acqua al fuoco, dunque. “Dopo il battesimo – dice Jung – si va dritti all’inferno: è questa l’enantiodromia” (Id. 80). Enantiodromia significa corsa nell’opposto. E’ questo un concetto che nella filosofia di Eraclito indica la concezione secondo cui tutto ciò che esiste passa nel suo opposto. In Manipura arde il fuoco delle emozioni, delle passioni, le quali non sono altro, a dire di Jung, che la fonte del fuoco. Un uomo acceso da esse non è più bidimensionale: “un uomo che non sia infiammato non è nulla”, aggiunge il Nostro, che a  questo punto ci ricorda come la sua prima scoperta a proposito dei cakra era stata che essi “hanno veramente a che fare con quelle che vengono chiamate localizzazioni psichiche”.

La maggior parte della gente non è mai andata oltre questo cakra. Le persone si lasciano stregare dalle proprie emozioni e si svuotano di ogni energia, si consumano nella fiamma emotiva. Per staccarsi da questa presa è necessario osservarsi dall’alto, cioè da Anahata, il cakra del cuore, il luogo in cui Shiva fa la sua prima comparsa come germoglio. Si scopre il Sé e si incomincia a individuarsi. Vogliamo adesso riportare un passo molto significativo della seconda conferenza a proposito di questo quarto centro, perché ci fa capire come Jung, con la sua psicologia, davvero si sia opposto alla marea di nichilismo nietzschiano e freudiano, introducendo nelle sue opere molti di quei saggi che gli hanno fatto guadagnare l’etichetta di mistico usata a mo’ di insulto. Noi abbiamo sempre sottolineato come questi particolari studi hanno, invece, contribuito a far rientrare dalla finestra, ciò che era stato sbattuto fuori dalla porta: la metafisica. Ecco il brano in questione: “…L’individuazione comincia quindi in Anahata. Anche qui è possibile, però, che si produca un’inflazione. L’individuazione non è diventare un Io: si diventerebbe, in questo caso, degli individualisti. Un individualista è un uomo che non è riuscito a individuarsi, è un egosista distillato filosoficamente. L’individuazione è diventare quella cosa che non è l’Io, il che è stranissimo. Perciò nessuno capisce che cosa sia il Sé, perché il Sé è proprio quello che non si è, ciò che non è Io. L’Io scopre di essere una mera appendice del Sé…” (Idem, pag. 86).

Detto con altri termini, un discorso del genere potrebbe essere attribuito ad un mistico, e non farebbe una grinza. Quanti egoisti distillati filosoficamente si aggirano oggi per le strade di questo mondo! Quanti falsi maestri!  Jung aveva intuito il proliferare di questa genia dopo avere letto lo Zarathustra di Nietzsche e le opere di Freud, che sul solco volteriano e illuminista stavano per dare la spallata finale a tutti i valori. Cercava, perciò, di correre ai ripari arricchendo la sua opera di intuizioni degne di un mistico.

Dall’ Io al Sé, dalla persona all’ im-persona, dal personale all’impersonale, dal personaggio all’attore, dall’illusione alla realtà, ecc. A questo punto si comincia a respirare “aria” sottile: siamo nella sfera dell’ etere, nel cakra della gola, Visuddha, la sfera dell’astrazione. E’ la sfera dei concetti, della realtà psichica, entriamo in un mondo fatto di sostanza psichica. L’uomo supremo appare chiaro e visibile in questo centro, ed egli è il Purusa: un essere in cui si è contenuti, che è più grande e più importante di noi, ma che ha un’esistenza completamente psichica (Id. pag. 92). In Visuddha, spiega Jung, la materia è una pelle sottile attorno ad un immane cosmo di realtà psichiche. In Visuddha “il mondo diventa un riflesso della psiche”.

Fino a Visuddha ogni cakra contiene al suo interno un simbolismo animale. E’ quindi a questo punto che Jung dedica la sua attenzione a tali animali. Egli li considera come una sorta di energia, di forza, che passando da un cakra all’altro muta aspetto e significato. In Muladhara abbiamo l’elefante che sorregge la terra, e che “rappresenta il tremendo impulso che sostiene la coscienza umana, la forza che ci obbliga a costruire il mondo conscio”. Secondo il Nostro, per l’indù l’elefante rappresenta la forza della coscienza, la volontà. A noi quel “tremendo impulso” ci sembra una grande intuizione. E’ come se Jung ipotizzasse una sorta di gene psichico di cui l’uomo, per il solo fatto di essere uomo, sente l’imperioso comando ad elevarsi dallo stato di animalità. Senza di esso non sarebbe che un animale fra gli altri. Di cosa sia stata capace la volontà umana è testimoniato dalle grandiose opere dell’ingegno e dell’intuizione: dalla Grande Muraglia cinese al computer americano; dal Taoismo cinese alla filosofia dei greci; da Omero a Tagore; da Roma a New York; dalle piramidi al tunnel sotto la manica; da Euclide ad Einstein; e così via dicendo, in tutti i campi del sapere e del fare. L’elefante  è un animale forte, paziente, docile, fedele al coniuge, gentile, disposto ad imparare, lavoratore instancabile, veicolo del dio Ganesha, regale, longevo, compassionevole, e tante altre cose ancora (vedi il dizionario degli animali di J. C. Cooper della Neri Pozza). Quindi, cosa esso possa rappresentare così come è raffigurato nel primo cakra è facilmente intuibile. Ma una cosa da non sottovalutare è ciò di cui potrebbe esser capace un tale buon animale, se costretto all’ira. Jung dedica poche righe a ciascun animale raffigurato nei centri della colonna vertebrale, ma quel poco che dice basta ad indirizzare lo studioso della psiche verso eventuali approfondimenti sia teorici che pratici, perché non dimentichiamo che il Kundalini-Yoga può essere oggetto di speculazioni teoriche, ma esso è soprattutto un manuale di visualizzazioni ed operatività, un trattato di corretta manipolazione dell’ Energia divina, individuale e cosmica allo stesso tempo.

Ma ecco che passando a Svadhisthana quella forza, quell’energia rappresentata prima dall’elefante, prende l’aspetto di un Makara, un Leviatano. Nonostante la sua natura acquea, esso ha una lingua infuocata. E’ un pesce mostruoso, la creatura primordiale dell’oceano che incarna il caos. E’ il “serpente tortuoso dell’Antico Testamento”. E Jung ci dice chiaro e tondo che quella stessa forza amica dell’elefante, qui diventa il peggior nemico, perché si sta uscendo dal mondo terreno per entrare nelle praterie dell’ inconscio: “La maggior benedizione in questo mondo – ci dice il nostro conferenziere – è la peggior maledizione nell’ inconscio” (Id. pag. 97). Paragona elefante e leviatano, il primo alla madre che nutre e sostiene, ed il secondo alla madre divorante che trattiene a sé non facendo diventare adulti. Quindi, se si vuol lasciare questo mondo per entrare in quello dell’inconscio bisogna abbandonare la “madre-elefante”, se no si rischia di trasformarla in “madre-leviatano-divorante”.

In Manipura l’animale simbolico è l’ariete. Esso è sacro al dio Agni, al fuoco, ma è anche il domicilio di Ares, Marte, l’infuocato pianeta delle passioni, dell’impulsività e dell’impetuosità, ci dice Jung. L’elefante si è trasformato in un animale sacrificale. Il pericolo è diminuito, perché le passioni sono minor pericolo rispetto all’annegamento nell’inconscio: “essere inconscio delle proprie passioni è molto peggio che soffrirne” (Id.). Se si è consapevoli dei desideri e delle passioni fondamentali, il peggio è passato. E’ interessante ricordare come Ea-Oannes, dio babilonese degli abissi e del destino, sia nato dal mare. Altra cosa da sottolineare riguarda il corno rituale ebraico, lo shofar,  che si suona durante speciali ricorrenze, e che, ricavato da un corno d’ariete, rappresenta il sacrificio sostitutivo rispetto all’uomo (Abramo stava per sacrificare Isacco, quando improvvisamente gli viene detto di sacrificare in sua vece un ariete).

Ma eccoci arrivati alla gazzella raffigurata in Anahata. Quando essa corre, ci fa notare Jung, pare che voli: tanto è leggera e agile. Vive sì sulla terra, ma ha anche caratteristiche di uccello, perché riesce a vincere facilmente la forza di gravità con le sue corse volanti. Essa è adatta a rappresentare – ci viene suggerito – “la forza, l’efficacia e la leggerezza della sostanza psichica, pensiero e sentimento”. Ci piace però sottolineare come, parlando della gazzella e di questa sua rappresentanza della sostanza psichica, Jung accenni alla porta della metafisica che, secondo lui, Freud avrebbe chiuso:  “….considerava la psiche come qualcosa di fisiologico, una sorta di contraltare della vita del corpo”, un mero frutto di chimiche reazioni. Per il Nostro, la psiche ha invece dignità di causa: esiste. Essa si muove autonomamente e non è noi stessi. Ci rendiamo conto, grazie ad essa, di non esser più padroni in casa nostra, e ciò comporta, dice Jung, la fine della nostra monarchia.

Appena si capisce questo, possiamo comprendere bene la ricomparsa dell’elefante in Visuddha. Qui l’animale è a contatto non più con la terra del Muladhara, ma coi pensieri umani. La forza dell’elefante, qui viene messa a disposizione  delle realtà psichiche. E Jung conclude il discorso sugli animali dei cakra con una considerazione di carattere generale che ci piace riportare: Visuddha “è soltanto il quinto cakra, e siamo già letteralmente senza fiato: siamo oltre l’aria che respiriamo; stiamo raggiungendo, diciamo così, il futuro remoto dell’umanità o di noi stessi” (Id. pag. 102). Ed anche questo, ancora una volta, è matafisica: il futuro non esiste, ma antichi saggi dell’umanità, disegnando questi cakra, attraverso simbologie sofisticate e colori particolari, hanno dato uno sguardo su di esso, realizzando in se stessi espansioni di coscienza oggi impensabili per un’umanità che dimora oziosamente, al massimo, in Manipura. Jung non riesce a nascondere fra le righe dei suoi discorsi una grande ammirazione per questi antichi studiosi della psiche, per questi mistici dell’energia vitale che con le loro esperienze hanno davvero aperto una finestra sul futuro della psiche umana, della civiltà vera: quella che poggia sulla conoscenza di se stessi.

Ma ancora non è finita: mancano gli ultimi due cakra. **********************************

La prima cosa che Jung nota in Ajna-cakra, il centro fra le sopracciglia, è che in esso non vi sono raffigurati animali: “Ciò significa che non c’è alcun fattore psichico,  nulla che sia in opposizione a noi e di cui possiamo avvertire la forza” (Id.). E’ il centro in cui avviene l’unione con Shiva, il luogo dell’ unio mystica con il potere di Dio, ci dice il Nostro, cioè di quella Realtà Assoluta che altro non è che non-Io.Dio è l’oggetto psichico eterno“, aggiunge, e “in Ajna la psiche mette le alilo psichico non è più contenuto in noi, ma diventiamo noi i suoi contenuti” (Id. 103). Siamo la forza di quell’elefante del Muladhara che oramai non ci può più richiedere alcunché da fare, perché essa è ritornata “all’ origine, a Dio”. Ajna   è l’occhio unico, l’occhio della mente, l’occhio di Shiva. Esso arriva dappertutto, perché la Forza che lo supporta è dappertutto. E’ l’   “Io Sono” di Mosé, l’Essere di tutto. Ma esiste ancora un’esperienza di esso, cosa che non può esistere nel loto dai mille petali, il centro sopra la testa, il Sahasrara.  Si tratta dell’ Uno senza secondo. Si è trascesa ogni cosa, e si è Quello, ed è impossibile parlarNE.

Dopo avere fatto una considerazione di carattere generale sulla psiche, sulla sua ampissima estensione e su come essa sia una cosa tremendamente complicata, Jung ci ricorda che i simboli dei cakra…”simboleggiano la psiche da una prospettiva cosmica. E’ come se una supercoscienza… contemplasse la psiche dall’alto. Dall’angolo visuale di questa coscienza quadridimensionale, possiamo riconoscere che stiamo ancora vivendo in Muladhara… In realtà possiamo sviluppare la nostra coscienza fino a che essa raggiunga ajna, ma il nostro ajna è un ajna personale, e quindi è in Muladhara… Il nostro ajna  è intrappolato in questo mondo. E’ una scintilla di luce imprigionata nel mondo…” (Id. 113). “Questo dobbiamo sempre tenerlo presente, altrimenti cadiamo nell’errore della Teosofia e confondiamo il personale con il cosmico, la scintilla di luce individuale con la luce divina. Se lo facciamo non arriviamo da nessuna parte, ma ci limitiamo a patire una tremenda inflazione” (Id. 114). Solo il risveglio della Kundalini ci potrà far raggiungere i cakra più alti in senso metafisico e cosmico.

Questo è quanto. Ma vogliamo sottolineare ancora una volta l’importanza del pensiero junghiano, perché esso non è solo teorico, ma anche frutto di conoscenza personale. La prova, oltre che dall’opera omnia e dalla dettata autobiografia junghiana, ci viene offerta da una semplice frase che Jung pronuncia nel corso dei “Commenti di Jung alle conferenze in tedesco di Hauer“: “Il pensiero indiano ha rappresentato per me un mezzo per spiegare delle esperienze personali” (Pag. 129 op. cit.). Grazie, Natale Missale. Roma, 29 Agosto 2008.

Taggato su: , , ,